Una storia matrilineare
Qualche anno fa, precisamente nel 2014, uscì il testo in italiano, di Marija Gimbutas dal titolo: “Il linguaggio della Dea”. Il libro trattava di una rivisitazione della simbologia archeomitologica di quelle civiltà matriarcali. Questo studio, insieme a tanti altri sullo stesso tema, ci riporta nel Neolitico, tempo storico di grandi civiltà pacifiche, con una visione del sacro che si sviluppava principalmente attorno alla Dea e alla ciclicità della vita. È interessante notare che, se nell’immaginario religioso al centro c’era la Dea, in quello della costruzione sociale delle relazioni c’era la madre e cioè la donna. Parlare di matriarcato non significa semplicemente fare uno spostamento tra due opposti e sostituire il patriarcato con il matriarcato, si tratta invece di ripercorrere un cammino d’interpretazione della storia passata in vista di una storia futura totalmente altra da quella che conosciamo fino ad oggi e rileggere la vita fino Parlare di matriarcato, sia nell’ambito di una archeologia sociale che religiosa, significa innanzi tutto riscattare il sapere economico, politico, sociale, culturale di quelle società gestite e sostenute da donne. All’inizio c’erano le madri sia come coloro che generano la vita, sia come presenza attiva nella costruzione di società pacifiche. Quando ci riferiamo a questi studi che comprendono il Neolitico, scopriamo che le società di questo periodo storico sono state costruite su valori materni di cura e di sostegno della vita di donne e uomini, animali e piante. Le società matriarcali generavano un’economia di relazione; le donne erano custodi dei beni e della loro ridistribuzione, mentre gli uomini erano occupati nella caccia e nella difesa dei territori, usando strumenti di difesa e di morte. Le donne invece si prendevano cura delle persone, per lo più piccoli e anziani che restavano nel villaggio. Non solo dovevano conoscere la commestibilità dei frutti della terra ma anche le proprietà delle piante medicinali per curare piccoli e grandi ma anche coltivare e custodire la terra. Si trattava dunque di un sapere esperienziale e di cura del corpo e dell’anima che abita la vita. Il Neolitico è testimone di società non gerarchiche ma orizzontali con discendenza matrilineare. La casa era il centro in cui convergevano le differenti energie sociali; luogo del processo decisionale ma anche formativo-culturale. Spazio della tradizione narrativa di saperi diversi, da madre a figlia, da anziana a giovane, un sapere dell’esperienza colto persino dalla natura. La metodologia politica era quella del consenso, tipico stile di casa, opposto alla gerarchizzazione del governo. Anche lo spazio esterno si considerava “casa del Mistero”. Sembra dunque normale che in questa visione emerga un divino femminile, una Dea e non un Dio a immagine dei maschi. Forse lettrici e lettori si domanderanno perché fare questa memoria di società così lontane e differenti dalla nostra società attuale. Questa memoria mi appare preziosa perché ci ricorda che, in quanto donne, è doveroso recuperare il passato e reinterpretarlo. Non si tratta di partire da zero o arrampicarci sugli specchi per sostenere nuove ipotesi, ma recuperare quell’esperienza che con il tempo è stata ignorata diventando assolutamente inedita. La memoria dell’esistenza di società pacifiche e dunque non violente anche nei confronti dell’ambiente è forza attuale che dissipa ignoranza in donne e uomini di oggi, giovani e meno giovani. È sapienza recuperata dalle tracce del passato, in un momento storico dove alcuni atteggiamenti sembrano soffrire di antiche epidemie maschiliste. Significa anche riuscire a superare una lettura della storia passata vista solo da chi pensa di essere l’unico a poterla gestire, ispirando anche nuove visioni per il futuro. Ma l’importanza di questa memoria è soprattutto mostrare la pratica sociopolitica delle donne al mondo contemporaneo e l’impegno delle donne (cioè di coloro che non solo sono nate donne ma lo sono diventate -come direbbe Simone de Beauvoir- nelle loro più intime e reali trasformazioni) molto diversa da quella che ha imperato fino ad oggi, cospargendo violenza, morte, distruzione, esclusione e gerarchizzazione della società e della vita. Tutte e tutti, infatti, siamo alla ricerca di uno sviluppo della vita non violento, che nella passione di cura sarebbe capace di fermare questo sistema depredatore dell’anima e dei corpi; dell’umanità e dell’ambiente che ci ospita. Anche la teologia -cioè la visione e comprensione del Mistero- ha bisogno di questa memoria fino a diventare teosofia, al di là di ogni arroganza nella definizione di ciò che in realtà ci sovrasta. E chissà, anche la vita di fede delle stesse donne, cresciuta troppo ad immagine e somiglianza di quella maschile, potrebbe tenere a cuore l’immagine della Dea negli interstizi della propria vita quotidiana. Ma mentre scrivo mi rimane come un retrogusto amaro che si trasforma in delusione e un po’ di tristezza, provocando in me una domanda per tutte noi donne nella chiesa. Vi siete chieste perché nel Sinodo sull’Amazzonia le donne, seppur presenti, non potranno esprimere le loro posizioni e decisioni attraverso il voto? Mentre lo faranno i maschi anche laici. Questo mi sembra assurdo, privo di fondamento. Noi maestre nella cura, proprio mentre l’Amazzonia brucia per volere di politiche maschili sempre più violente, noi siamo tagliate fuori e ancora una volta lasciate in secondo piano. Forse dovremmo osare almeno quella critica risata che osò Sara, nelle ore più calde del giorno all’ingresso della tenda, mentre Abramo e “altri tre” decidevano anche per lei (cfr. Gen 18,1-16).
Non basta dire che siamo presenti e che i nostri contributi verranno senz’altro raccolti.
Questo è assurdo, è falso e non basta.